venerdì, aprile 26

Prof. Giuseppe Palmieri: «Gli Studi forensi al servizio dei Diritti Umani»

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Il 27 settembre interverrà al Forum INPEF “Il valore della Giustizia in Italia: tra prove oggettive e prove opinabili. Istituzioni al servizio dei Diritti Umani: la tutela dei Bambini e delle Famiglie”, il Prof. Giuseppe Palmieri, PhD in Archeologia presso l’Università di Cordova, Membro Permanente del Comitato Nazionale ICOMOS España e Coordinatore e Docente del Master INPEF in Antropologia e Archeologia Forense, con un focus su “Gli Studi forensi al servizio dei Diritti Umani”.

– Prof. Palmieri, qual è la nuova visione di cui l’Antropologia e l’Archeologia forensi sono portatrici e soprattutto in che modo è possibile conciliare l’aspetto accademico in cui tali Scienze sono nate con l’aspetto tecnico-scientifico dei metodi che utilizzano e con le urgenze culturali della società attuale?

“Quando ci riferiamo all’Archeologia, di solito la associamo alla visione per così dire ‘romantica’ della disciplina, quella delle grandi scoperte, legata agli studi della preistoria, delle grandi culture e civiltà del passato. Purtroppo, fatta eccezione per alcuni importanti studi nell’ambito dell’archeologia moderna o industriale, la disciplina non sembra aver prestato sino ad ora troppa attenzione ai periodi più recenti della nostra storia. Tanto è vero che il suo contributo alla storia contemporanea è molto scarso, come se la metodologia archeologica non potesse essere applicata a periodi storici più recenti. Solo per fare un esempio: gli effetti e le conseguenze di guerre e conflitti hanno lasciato tracce indelebili nella coscienza sociale, ma non solo. In tutte le aree teatro di scontri, bombardamenti, invasioni, resistenze o esecuzioni, le cicatrici, anche se non sempre visibili, sono presenti e non sempre hanno ricevuto le cure necessarie. Nonostante l’enorme quantità ed entità di violenze e conflitti, infatti, solo alla fine della seconda guerra mondiale, dopo la terrificante scoperta dell’Olocausto, fu ritenuto necessario, anzi imperativo, mantenere vivo il ricordo delle vittime e delle cause di tali orrori. Ed è questo il punto di inflessione a partire dal quale si innesta il processo di recupero della memoria, attraverso l’analisi storica e lo studio della cultura materiale”.

– È qui che l’Archeologia, in quanto Scienza, può giocare un ruolo fondamentale?

“Esattamente. I campi di battaglia, le trincee, le fortificazioni, i bunker, i campi di concentramento o le fosse comuni possono essere analizzati utilizzando proprio la metodologia archeologica, che in molti Paesi europei è da tempo impiegata all’indagine dei contesti generati dai conflitti bellici contemporanei. L’analisi storica dei fatti, dei come e dei perché del XX secolo non può ovviare l’importanza dell’Archeologia, in quanto scienza che permette di recuperare, ‘toccare con mano’ e interpretare i resti materiali del passato, contribuendo con la sua metodologia ad una conoscenza più rigorosa dei contesti e degli scenari di questo passato recente. Ovviamente le possibili applicazioni della tecnica archeologica di scavo e recupero dei resti interrati sono molteplici e sempre più spesso impiegati anche nel corso di indagini di crimini avvenuti di recente. Si tratta in ogni modo di una disciplina in divenire, i cui limiti deontologici appaiono ancora abbastanza ‘flessibili’, certamente soggetti a revisioni e, perché no, ad essere motivo di divergenze tra gli stessi operatori del settore. Se ci muoviamo nell’ambito delle definizioni vediamo come si può far riferimento all’Archeologia Forense come ‘…alla semplice applicazione delle tecniche di recupero nei contesti caratterizzati dalla presenza di corpi interrati o scheletrizzati’ o alla branca dell’archeologia che si occupa dell’analisi della scena di un crimine ‘datato’. A mio parere la definizione che meglio rispecchia le aspirazioni e gli obiettivi della disciplina è quella secondo la quale l’Archeologia forense è l’applicazione della teoria e della metodologia archeologica in un contesto legale attraverso un approccio sistematico, flessibile e adattabile a qualsiasi scena del crimine”.

– Ricollegandoci proprio al lavoro scientifico di campo come metodo per la riscoperta e la conservazione della memoria storica, in che modo le discipline forensi possono diventare delle alleate nel portare verità e giustizia nell’ambito di casi di indagine che hanno a che fare con i Diritti Umani?

“Questa branca dell’Archeologia effettivamente va oltre, poiché non si concentra solo sui resti materiali generati nei conflitti, ma anche su tutti quei casi di violazioni dei Diritti Umani, cercando di ricostruire le dinamiche dei crimini a partire dai resti materiali che queste situazioni hanno generato. Le operazioni di indagine e recupero dei resti vengono svolte secondo le raccomandazioni dell’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani (Proyecto Mex/00/AH/10) che stabilisce il modus operandi per le indagini forensi in casi di morti avvenute in possibili contesti di violazione dei Diritti Umani. Tradizionalmente, i processi di Recupero della Memoria Storica nascono da iniziative a carattere familiare e locale, e non pubblico e istituzionale, destando l’interesse generale e ponendo in marcia un processo di salvaguardia della memoria delle vittime in cui l’Archeologia ha sempre svolto un ruolo fondamentale. In alcuni casi, invece, la pressione sociale ha ottenuto l’attenzione istituzionale riuscendo a far luce su crimini mai risolti e troppo spesso dimenticati. Non sono poche le iniziative volte a ristabilire gli equilibri che la storia ha potuto negare, attraverso l’adozione di nuove misure legali che sempre più spesso si traducono in leggi che riconoscono i diritti e stabiliscono misure a favore di coloro i quali subirono varie forme di violenza o persecuzione durante guerre civili o regimi dittatoriali. Se guardiamo al contesto europeo, la Spagna fece scuola con l’approvazione della legge 52/2007 e la creazione di una Commissione Interministeriale per lo studio dei casi delle vittime della Guerra Civile e del Franchismo. Questo sforzo legislativo fu il germe del cambiamento per quello che riguarda l’approccio metodologico della ricerca e dello studio dei resti delle vittime della Guerra Civile e della dittatura. Da questo momento in poi, le indagini, le campagne di scavo e le iniziative per il recupero della memoria storica sono costanti e finanziate con fondi pubblici. Ovviamente in questi contesti l’Archeologia forense ha tanto da dire e consente di utilizzare percorsi diversi rispetto a quelli dello studio delle fonti tradizionali, della documentazione amministrativa e della storia ufficiale: permette, infatti, di portare alla luce fatti dimenticati, male interpretati o, peggio, messi a tacere”.

– In che modo, Prof. Palmieri?

“Dinanzi alla passività politica, sono quasi sempre i parenti, le mogli, i fratelli, le figlie, i nipoti i primi a prender coscienza e a decidere di rompere il silenzio sensibilizzando la società civile. Le fosse comuni sono una drammatica testimonianza delle ferite della memoria e della storia, e sono al contempo uno strumento cruciale per comprendere gli effetti sociali, politici e culturali del terrore e dei processi di costruzione della paura. Scavare queste tombe significa letteralmente ‘scavare nella memoria’. E questo significa, usando una metafora archeologica, scavare in profondità fino a raggiungere i meandri più oscuri della storia per riportare alla luce la verità, restituire dignità e fare giustizia, anche quando questa verità riesce ad inorridire superando le peggiori aspettative”.

– Se dunque l’apporto dell’Antropologia e dell’Archeologia forense può diventare quanto mai essenziale in ambito peritale, quanto ritiene sia importante ripensare tali discipline e ridefinire le nuove figure professionali coinvolte, in modo che rispondano alla necessità di salvaguardare le prove scientifiche – in quanto tracce di memoria, storia e verità – anche in collaborazione con altri professionisti?

“Credo sia un fenomeno abbastanza diffuso, ma soprattutto in Italia è evidente una sorta di diffidenza che a volte degenera in totale assenza di dialogo tra gli operatori delle varie discipline che potrebbero, anzi dovrebbero contribuire al raggiungimento di obiettivi comuni anche se attraverso approcci specifici differenti. Alcune iniziative pionieristiche di questi ultimi anni hanno individuato il problema della mancanza di comunicazione tra specialisti e puntano precisamente alla dotazione di una metodologia condivisa nell’ambito forense, per far sì che il tanto decantato approccio multidisciplinare possa essere una realtà, superando le compartimentazioni tecnico-professionali e le ‘gelosie’ attualmente esistenti nell’ambito delle indagini giudiziarie”.

– La sinergia tra mondo accademico e applicazioni sul campo sembra sia l’elemento principe da cui partire per impostare una proposta formativa valida. È la stessa mission dell’INPEF? E come questa esperienza si trasferisce nella proposta formativa del Master in Antropologia e Archeologia forense?

“L’INPEF ha colto l’interesse di tanti e ha saputo interpretare i segnali di insofferenza di una parte importante del mondo peritale e di tanti specialisti provenienti dal mondo dell’archeologia, dell’antropologia, delle scienze applicate ma anche dall’area giuridica, interessati agli studi forensi e all’applicazione delle proprie conoscenze in quest’ambito. Si tratta di un Master con una duplice valenza, pensato per chi voglia applicare le tecniche di indagine e l’approccio tecnico scientifico dell’area forense ai contesti archeologici, ma anche per chi, dall’ambito di studio archeologico – inteso come studio dei fatti dell’antichità a partire dall’analisi dei resti materiali – sia interessato a fare un passo avanti e a mettere le proprie competenze al servizio delle indagini giudiziarie in qualità di perito. I grandi cambiamenti a volte sono il risultato di un evento clamoroso dagli effetti catartici, in altri casi invece si tratta di un percorso lento e non privo di ostacoli da superare. È un fenomeno ancora molto recente ma siamo sicuri che in tempi ragionevoli nelle liste dei periti a disposizione dei giudici presso i tribunali, tra i tanti antropologi, chimici o biologi, ci saranno anche numerosi archeologi, disposti a dare il loro prezioso contributo alla ricerca della verità e della giustizia, una giustizia che purtroppo molto spesso tarda ad arrivare; ma si sa, gli archeologi sono gente paziente per la quale il concetto di tempo è qualcosa di molto, molto relativo”.

Clara Centili
Ufficio Stampa I.N.PE.F.

 

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