di Vincenza Palmieri
E’ di questi giorni una pioggia di dati che riguarda quella che viene definita “emergenza adolescenti”, in relazione alla salute mentale. In Italia, lo scorso anno, si è assistito ad una media di “27 ricoveri al giorno per disturbi dello spettro psicotico, del comportamento alimentare o della personalità, talvolta in compresenza di abusi di sostanze, dall’alcol agli stupefacenti”.
Nella sola Lombardia abbiamo assistito a 275 adolescenti ricoverati nei reparti psichiatrici per adulti e 25.000 ragazzi dagli 11 ai 17 anni seguiti dai servizi di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza. I ricoveri sono, infatti, aumentati del 30% in 5 anni.
Ma tutto ciò non avviene solo in Lombardia. La situazione è nota e diffusa in tutta Italia.
E proprio di fronte alla continua crescita di tali dati, non possiamo non ribadire la domanda fondamentale che poniamo da anni e che è alla base di ogni discorso successivo e ogni ragionevole ipotesi di soluzione:
sono le patologie degli adolescenti ad essere aumentate, oppure è il range all’interno del quale si è soggetti a diagnosi ad essersi ampliato, per cui sempre più ragazzi finiscono in un ventaglio di diagnosi in cui possano essere riconosciuti?
L’adolescenza è la terra di nessuno. Al livello degli Enti locali, che dovrebbero occuparsene, abbiamo una grande offerta rivolta ai bambini e ai ragazzi dei primi anni delle medie (oratori, doposcuola, pre-scuola, centri estivi); ma è proprio in quello spazio che va dalla scuola media alla superiore (fascia adolescenziale) che riscontriamo un vuoto.
Sicuramente, i ragazzi a 16 anni non amano particolarmente frequentare i centri ludici e cercano esperienze di vita, ma è anche vero che le città non sono organizzate per un sistema di accoglienza, ricreazione educativa o di intrattenimento dei ragazzi pre e adolescenti.
Tolti gli Scout, i Ragazzi del muretto, i Braccialetti rossi e quelli del Bambin Gesù, al di là di tutta quella fiction di dolore e aggregazione, alla fine i Ragazzi della Via Pal e della Via Gluck sono ancora alla ricerca di quell’isola che non sanno dove trovare, cercando di schivare l’interpretazione dei loro atteggiamenti da parte della psichiatria ufficiale come diagnosi: “disturbo dell’età preadulta” .
Ma è pur vero che a 12/14 anni si raccolgono anche i frutti di ciò che gli adulti hanno seminato fino a poco prima.
Quando nei cortili mettiamo divieti e scriviamo “vietato praticare qualsiasi tipo di gioco” cosa stiamo dicendo?
Stiamo dicendo che i bambini che abitano in quel cortile non hanno un posto dove giocare come hanno sempre fatto tutti i bambini del mondo. Giocare a Campana, a Rimpiattino, a Salvatutti… mentre l’assenza di gioco non salva proprio nessuno.
Questi bambini a cui è vietato giocare con i coetanei a qualsiasi tipo di gioco, sono costretti al confino nelle loro camere: davanti a un pc, a un televisore, a un videogioco.
Qualcuno vuole parlare ancora di obesità dei bambini, di alcool a 11 anni, di psicofarmaci in età pediatrica, di dipendenza dai video giochi, di cyber-bullismo o disgrafia?
A fronte di tutto questo, a fronte della perdita di una grande risorsa progettuale italiana – la Legge 285/97, che per prima ha posto l’accento sulle opportunità per bambini e adolescenti, per lasciare spazio alla Legge 328/2000 (riforma del servizio socio-assistenziale) che ha introdotto reti di servizi che hanno portato a un proliferare di case-famiglia o case per ragazzi con disturbi psichici – e a fronte dell’incremento delle Leggi introdotte anche nella scuola affinché le lacune fossero definite come deficit, ebbene per questo intenso lavoro di negazione dell’infanzia abbiamo costruito un’adolescenza che soffre.
E famiglie non in grado di abbracciare tanta sofferenza a tal punto da sentire fortemente il bisogno di delegare all’Esercito, alla Polizia, alla Finanza, l’educazione e la repressione dei propri figli.
Incominciamo a pensare che “disturbo” sia una parola, una definizione che mai dovremmo usare quando parliamo di adolescenti. E che “disturbo” alla fine significhi fastidio. Ma, quando parliamo di adolescenti, più che di fastidio dovremmo parlare di sofferenza e quindi di dolore.
Troppo spesso troviamo genitori che puniscono le trasgressioni dei propri figli privandoli della partita di calcio, degli allenamenti, del gioco e dello sport. Ma le privazioni non sono mai state risolutive o educative.
Non è semplice, certamente, la gestione di un ragazzo che deve operare lo svincolo adolescenziale per diventare una freccia che va verso la vita; sicuramente, però, deve essere impedito con forza il riconoscere in qualunque manifestazione di dolore, di crescita o di evoluzione, un disturbo psichiatrico.
Questo ha riempito le case “ad alto contenimento” per adolescenti, che avrebbero dovuto invece essere “riempiti” di opportunità.
E così che anche Giamburrasca è un provocatore oppositivo, con gendarmi che, già in tempi “non sospetti”, andavano a catturare gli adolescenti ribelli, direttamente in casa propria.
Mai un adolescente dovrebbe essere rinchiuso in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario – come quello istituito a Castiglione delle Stiviere alcuni anni fa – mai in un reparto di psichiatria, per adulti o per minori che sia, e mai sottoposto a pratiche intrusive e mentalmente invasive con psicofarmaci e TSO.
Con un MAI che è la forza del dolore.
Ma la “scuola buona”, le buone Amministrazioni, le buone pratiche possono rappresentare invece la forza della QUANTITA’ di voci che devono levarsi a scudo – con il fare – verso i più fragili fra noi.
Nel range tra lo svincolo e la repressione, in quel ventaglio di manifestazioni umane, la COMPRENSIONE, LA COMPETENZA E LE OPPORTUNITÀ rimangono l’unica regia vincente.
Vincenza Palmieri
(Presidente INPEF)